Il Consenso Informato
(Avv. Luca Troyer)

Il diritto alla salute

Com'è noto, uno dei nodi problematici più tradizionali in dottrina ed in giurisprudenza riguardo ai limiti dell'attività medico-chirurgica è rappresentato dalla individuazione dei fondamenti idonei a consentire che un estraneo, sia pure qualificato come il medico, possa intervenire nell'ambito di una sfera, l'integrità fisica o - più genericamente - la salute, di un altro soggetto.

Non è qui il caso di ripercorrere le molteplici teorie che ad oggi vengono formulate al riguardo. Occorre pur tuttavia evidenziare come le diverse soluzioni ruotino attorno a due distinti approcci dogmatici:

  •  da un lato, vi è chi individua il fondamento della liceità dell'attività medica nel consenso dell'avente diritto. In altri termini: poiché il paziente è libero di salvaguardare la propria integrità psico-fisica, ogni attività medica nei suoi confronti trova la sua naturale giustificazione nel consenso del paziente stesso, salvo naturalmente le ipotesi in cui si riscontrino i fondamenti dello stato di necessità;

  •  dall'altro lato, vi sono autori, per la verità minoritari, che insistono sulla dimensione anche collettiva del bene "salute", e che pertanto, a fronte del ruolo sociale svolto dalla classe medica, individuano un tale fondamento nel dovere del medico di salvaguardare la vita e l'integrità fisica di ogni uomo.

Si darà naturalmente conto dell'orientamento sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità sul punto.

Non può tuttavia non sottolinearsi come una tale dicotomia, per certi versi, a mio parere, irriducibile (l'attuale dibattito in tema di eutanasia ne è la migliore dimostrazione), trovi la propria genesi nello stesso dettato costituzionale.

Infatti, l'art. 32 della Costituzione, e cioè la norma che primieramente riconosce a livello costituzionale il diritto alla salute, racchiude indubbiamente in sé una certa ambiguità fosse inevitabile, individuando nel bene "salute" un risvolto sia individuale che collettivo.

Così, se "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo", è anche vero che una tale tutela è indicata anche come "interesse della collettività". D'altra parte, il secondo comma dell'art. 32 evidenzia come "nessuno può esser obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".

Fondamento della liceità dell'intervento medico

Se dunque la regola è la intangibilità, da parte della collettività, della salute come bene individuale, nondimeno sono previste eccezioni, sia pure, "riservate" alla legge (si pensi anche soltanto ai casi di vaccinazione obbligatoria, cui il cittadino non può sottrarsi, per ragioni di salute pubblica).

Orbene, pur consapevoli che i nodi problematici che ancora emergono in tema di responsabilità penale del medico traggono origine proprio da una tale ambivalenza, occorre evidenziare come negli ultimi anni la giurisprudenza abbia decisamente individuato il fondamento della liceità dell'intervento medico nel preventivo assolvimento di precisi doveri di informazione nei confronti del paziente.

In altri termini: il medico deve agire con il consenso del paziente, ed un tale consenso deve essere preceduto da una idonea ed esaustiva informazione sulle sue condizioni e prospettive terapeutiche.

Ma, occorre chiedersi, quali sono i fondamenti normativi del c.d. "consenso informato"?

La questione non può che inquadrarsi negli artt. 32 e 13 Cost., da un lato, e 5 c.c., dall'altro.

Dell'art. 32 si è detto. L'art. 13, affermando l'inviolabilità della libertà personale, ed ancorandone ogni restrizione alla riserva di legge, rafforza il carattere "personalistico" del bene salute.

Semmai, l'art. 5 c.c. suggerisce di per sé un argomento di altrettanto scottante attualità. Cioè a dire: fino a che punto un soggetto è libero di disporre della propria salute?

Volutamente intendiamo riferirci alla nozione di "salute" più che non a quella di "corpo" giacché la sistematica lettura degli articoli in questione comporta che non tanto siano vietati gli atti di disposizione del proprio corpo tali da cagionare una diminuzione permanente dell'integrità fisica, quanto invece che sono consentiti tutti quegli interventi, concernenti "anche" l'integrità fisica, che tuttavia siano idonei a tutelare il bene "salute" nella sua accezione più ampia, anche psichica (1). Basti pensare all'evoluzione giurisprudenziale in tema di cambiamento "chirurgico" dei caratteri sessuali, per rendersi perfettamente conto di una tale inversione non solo metodologica.

 

Il consenso informato nel nuovo codice deontologico

In quest'ottica, il cd. consenso informato è stato alfine "normativizzato" da ultimo nell'art. 31 nel nuovo codice di deontologia medica adottato nel 1995 (2).

È pur vero che il codice deontologico non costituisce atto legislativo. Tuttavia, è chiaro che il giudice, nel valutare il comportamento del medico, ne apprezzerà la rispondenza anche al codice deontologico.

Tanto più che una tale codificazione del principio in discussione è intervenuta nell'ambito di una nutrita giurisprudenza che ha imperniato proprio sulla corretta informazione del paziente e sul suo previo consenso la liceità dell'intervento medico.

Così, ad es., Cass., sezione V, 13 maggio 1992, Massimo: "soltanto il consenso, manifestazione della volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto l'antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo. Ed in proposito, mentre non sembra inutile ricordare che, ai sensi dell'articolo 89 del Codice di deontologia medica (previgente: n.d.a.), il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico, deve ricordarsi altresì, intorno al trattamento medico-chirurgico, che l'antigiuridicità può, indipendentemente dal consenso, solo essere esclusa da cause di giustificazione, che nella fattispecie non vengono configurate (il preteso stato di necessità). (...) Se il trattamento, eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere l'ipotesi in cui esso sia consentito dall'ipotesi in cui il consenso invece non sia prestato. E si deve ritenere che, se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico e l'esito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (art. 32, secondo comma, Cost.), e che a fortiori il reato sussiste ove l'esito sia sfavorevole".

Se il medico interviene senza il preventivo consenso, egli è in ogni caso responsabile di lesioni personali ovvero, in caso di esito mortale, di omicidio preterintenzionale.

Infatti, il suo intervento non può in alcun modo qualificarsi come colposo, poiché egli agisce rappresentandosi correttamente la situazione di fatto e volendo l'evento dannoso o pericoloso da cui la legge fa dipendere l'esistenza del reato. Del resto, è qui sufficiente il semplice dolo generico, non essendo richiesto il perseguimento di alcun fine ulteriore. Da ciò discende il fatto che il medico risponderà a titolo di dolo anche se il suo fine fosse di tutelare nel migliore dei modi l'integrità del paziente.

Se invece l'intervento avesse un esito felice, senza alcuna conseguenza sia pure minima sull'integrità fisica del malato, si ritiene che sia configurabile il delitto di violenza privata di cui all'articolo 610 c.p..

Requisiti del valido consenso

Innanzitutto deve esser chiaro che il consenso debba esser dato prima dell'inizio del trattamento terapeutico. Esso è naturalmente revocabile in ogni momento (sempre che il soggetto sia capace di intendere e di volere, e salvo - in tale ipotesi - i casi di stato di necessità, quando ad esempio l'interruzione repentina del trattamento possa provocare gravissimi rischi per il paziente).

Destinatario del consenso è evidentemente il medico che effettua la particolare prestazione che di volta in volta viene in considerazione.

Si ritiene, tuttavia, che il consenso dato ad un medico senza particolari limitazioni valga a rendere lecito l'intervento anche di un altro medico, dotato tuttavia dello stesso grado di capacità o di specializzazione (non sarebbe cioè "fungibile" un consenso dato ad uno specialista rispetto all'opera prestata da un medico generico).

Tuttavia, se il paziente specifica che il possesso viene prestato a condizione che il trattamento sia posto in essere da un medico determinato, il consenso varrà esclusivamente per quest'ultimo.

 

Oggetto del consenso

Oggetto del consenso è il trattamento (si ricorda infatti che il medico è tenuto ad un'obbligazione di mezzi e non di risultato).

Tuttavia il consenso dovrà essere preceduto da una illustrazione il più possibile esaustiva della terapia, sebbene la dottrina abbia evidenziato come il medico debba guardarsi da un vero e proprio "eccesso informativo" che potrebbe fondatamente rivelarsi controproducente, quale ad es. nel caso che si prospettassero al paziente in attesa di essere operato conseguenze nefaste del tutto remote, atte soltanto ad aumentarne lo stato di ansia che potrebbe pregiudicare gli effetti dell'intervento (3).

Del resto, la stessa giurisprudenza di merito ha recentemente evidenziato come non possa esser tenuto responsabile di lesioni personali volontarie, conseguenti alla mancanza di consenso informato, il medico che abbia eseguito una escissione di un linfonodo cervicale, da cui sia derivato un danno neurologico al nervo accessorio spinale, quando di tale intervento il paziente sia stato preventivamente informato, pur senza esser stato edotto circa lo specifico rischio poi concretizzatosi. Infatti la sentenza da' atto della "non rilevante incidenza statistica dell'evento lesivo, quale conseguenza della pratica osservata dal chirurgo" (4).

Secondo la recente dottrina, "il medico dovrà illustrare in termini comprensibili:

  • la condizione patologica in atto;

  • le scelte programmate tanto ai fini diagnostici che terapeutici;

  • i rischi connessi all'attuazione dei mezzi diagnostici-terapeutici prescelti, prospettando, ove possibile, le possibili alternative;

  • i risultati prevedibili di ciascuna scelta;

  • gli effetti collaterali, le menomazioni e le mutilazioni inevitabili (...);

  • le percentuali di rischio connesse, in particolare in relazione alla sopravvivenza" (5).

Particolarmente delicata è poi la questione relativa alla possibilità che il medico limiti l'informazione al paziente che debba affrontare un'intervento chirurgico particolarmente rischioso ed, al tempo stesso, imprescindibile.

Sebbene la nuova norma deontologica imponga alla medico una maggiore informazione del paziente rispetto al codice previgente (6).

Peraltro, vi è in dottrina chi sostiene che, ove un'informazione dettagliata possa pregiudicare la stessa salute del paziente a causa inevitabili ripercussioni psicologiche che inevitabilmente si riverbererebbero sul suo generale tono psico-fisico, il medico ben potrebbe ometterla in virtù dell'articolo 54 c.p. (stato di necessità) (7).

Riteniamo che una tale opzione sia del tutto condivisibile, anche alla luce del generale obbligo di garanzia incombente sul medico.

 

Documentazione

Come è facile intuire, occorre prestare particolare attenzione al problema della documentazione del consenso.

Così, se è vero che il consenso può ben esser dato anche oralmente, non vi è dubbio che l'atto scritto, debitamente controfirmato dal paziente, sia tale da evitare tanto spiacevoli incomprensioni o ambiguità, quanto difficoltose necessità probatorie.

Semmai, occorre precisare che, tanto meno "necessario" sia l'intervento da effettuarsi (basti pensare alla chirurgia estetica), tanto più scrupoloso dovrà essere il medico nell'ottenere un consenso scritto. In tale ipotesi infatti il medico non potrebbe invocare l'esimente dello stato di necessità, e si troverebbe dunque esposto ad ipotesi di responsabilità penale.

Teoricamente è comunque sufficiente anche un mero consenso tacito (deducibile cioè univocamente dal comportamento concludente del paziente). Gli inconvenienti di una tale opzione, tuttavia, sono fin troppo evidenti.

Titolarità

Ovviamente, il consenso deve esser prestato da chi è titolare del bene giuridico tutelato, e quindi dal paziente.

Nel caso in cui il paziente sia minorenne ovvero incapace di intendere e di volere, il valido consenso dovrà esser prestato da chi ne esercita la potestà ovvero dal rappresentante legale (tutore o curatore) dell'incapace (interdetto o inabilitato).

La dottrina maggioritaria ritiene che solo il maggiorenne possa consentire ad interventi medici sulla propria persona: tale tesi appare certamente preferibile (in ottemperanza del resto alle disposizioni civilistiche in materia di capacità di agire), sebbene vi siano autori che evidenziano come in diritto penale diverse siano le soglie di età da valutare, mentre altri richiamano addirittura alla necessità di valutare di volta in volta la capacità del soggetto, a prescindere dall'età dello stesso (8).

Assai più delicata appare la questione relativa ai prossimi congiunti.

È infatti prassi ormai consolidata che il sanitario, a fronte di un paziente in momentaneo stato di incapacità (ad es. perché in coma), si rivolga ai prossimi congiunti chiedendo loro il preventivo consenso ad un intervento di particolare difficoltà.

A tal proposito occorre essere ben chiari. Sotto il profilo strettamente giuridico, e specificamente penale, il consenso dei prossimi congiunti non ha alcun effetto scriminante.

Il consenso, infatti, per avere efficacia penalmente rilevante, deve essere prestato dal titolare del bene giuridico protetto ovvero da colui che riveste una posizione di garanzia (rectius di protezione) rispetto a quel bene, e pertanto dal genitore (se il paziente è minorenne) o ancora dal rappresentante legale (se quello è incapace). Certamente non dai prossimi congiunti.

Semmai, la preventiva informazione dei prossimi congiunti dovrà essere effettuata sia per conoscere eventuali determinazioni precedentemente espresse dal paziente (pur rimando in tale caso al medico il potere - dovere di decidere nell'interesse esclusivo del paziente), sia per evitare successivi problemi giudiziari, in quanto è forse il caso di ricordare che normalmente gli atti di denuncia nei confronti di sanitari traggono origine proprio dai prossimi congiunti a motivo (eminentemente psicologico) della mancanza di preventiva informazione nei loro confronti circa i rischi connessi ad intervento medico-chirurgico.

Sia come sia, per superare ogni dubbio, deve essere chiaro che solo queste sono le ragioni che consigliano una preventiva informazione dei congiunti, la mancanza della quale - si ripete - non rileva sotto il profilo strettamente giuridico-penale.

Mancanza di consenso

Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso, pertanto, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità, e, qualora decidesse di intervenire, non sarà punibile:

  • purché sussistano i requisiti di cui al art. 54 c.p., e cioè lo stato di necessità, che risulta integrato quando egli debba agire mosso dalla necessità di salvare il paziente dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (cd. soccorso di necessità), sempre che il pericolo non sia stato da lui volontariamente causato, né sia altrimenti evitabile, e l'intervento sia proporzionale al pericolo;

  • ovvero purché emerga il proprio obbligo di attivarsi. Si ricorda infatti che l'art. 54 c.p. prevede semplicemente una causa di giustificazione che facoltizza il medico ad intervenire, ma non lo obbliga a farlo. Peraltro, in capo al medico stanno una serie di obblighi di garanzia nei confronti del paziente, obblighi derivanti dalla sua "posizione", dal suo ruolo. Lo stesso codice deontologico è chiaro sul punto (9), imponendo, e non solo facoltizzando, l'intervento medico, sia in casi di necessità e di urgenza, sia nelle ipotesi in cui il paziente - versando in condizioni gravi - non possa esprimere una volontà contraria.

Ciò introduce al diverso problema concernente il manifesto dissenso del paziente.

 

Dissenso

Occorre innanzitutto distinguere le ipotesi in cui il dissenso provenga direttamente dal paziente da quelle in cui invece sia il rappresentante legale del paziente ad opporsi.

Di tale secondo caso, infatti, l'esperienza giurisprudenziale ha avuto modo di occuparsi: si ricorderà la nota vicenda relativa all'opposizione dei genitori, appartenenti alla setta dei cd. Testimoni di Geova, rispetto alla indispensabile trasfusione di sangue nei confronti della loro figlia (10).

In tale situazione, deve ritenersi doveroso, da parte del medico, rivolgersi all'autorità giudiziaria, evidenziando la situazione sanitaria del paziente ed il rifiuto del suo rappresentante legale. Sempre che, naturalmente, non sussistano ragioni tanto gravi di urgenza, da non consentire alcun ritardo. È evidente, in tale ultima ipotesi, che il sanitario debba attivarsi immediatamente.

In ordine al rifiuto da parte del paziente stesso, viceversa, i problemi sono ancor più accentuati, anche a fronte del totale vuoto normativo, ciò che lascia il medico completamente solo di fronte a scelte di così evidente rilevanza.

Si scontrano in proposito due orientamenti dottrinali, una dicotomia che, come si è detto all'inizio, discende direttamente dalla effettiva ambiguità della norma costituzionale.

Da un lato, si sostiene che l'ordinamento non possa consentire comportamenti suicidari, specie ove questi vengano posti in essere al cospetto di un medico (11).

Si giustifica un tale assunto in relazione all'art. 32 Cost., nel quale viene evidenziato anche il valore collettivo del bene salute. Per di più, occorre tener conto di una serie di obblighi discendenti dalla normativa deontologia, della possibilità di incorrere nel reato di omissione di soccorso cui in caso di inerzia il medico andrebbe incontro, ed inoltre della posizione di garanzia rivestita dal medico nei confronti del paziente anche dissenziente.

Dall'altro lato, in riferimento al combinato disposto di cui agli artt. 32 e 13 Cost., si evidenzia come il bene salute abbia una rilevanza eminentemente personale, tollerando limitazioni nei soli casi previsti dalla legge (in materia ad es. di trattamenti sanitari obbligatori per la tutela della salute pubblica).

Pertanto, a fronte del valido dissenso di un paziente in normale stato di capacità (12), il medico dovrebbe astenersi da alcun intervento.

È evidente che una tale problematica sta alla base dell'attuale dibattito anche in tema di eutanasia. Pare allo scrivente più che mai opportuno, in presenza degli accennati divergenti approdi dottrinali i quali pongono a proprio fondamento le medesime disposizioni costituzionali, che il legislatore intervenga a disciplinare compiutamente la materia, anche per limitare l'attuale disorientamento degli esercenti la professione medica.


  1. Si vedano, sul punto, le puntuali notazioni di C. PARODI - V. NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da F. Bricola e V. Zagrebelsky, Torino, 1996, p. 398 ss.

  2. Art. 31. Consenso informato. Il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato.
    Il consenso, in forma scritta nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente, è integrativo e non sostitutivo del consenso informato di cui all'articolo 29.
    Il procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico che possono comportare grave rischio per l'incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.
    In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo art. 33.

  3. Sul punto si veda in generale CHIODI, Il consenso del paziente, in La responsabilità medica, Milano, 1982.

  4. Così Corte d'Appello di Firenze, 11 luglio 1995, Gervino e altro, in Foro it., 1996, II, c. 188 ss..

  5. Così C. PARODI - V. NIZZA, La responsabilità penale, cit., p. 417.

  6. Così disponeva l'art. 39 del codice deontologico del 1989: "Il medico potrà valutare, segnatamente in rapporto alla reattività del paziente, l'opportunità di non rivelare al malato o di attenuare una prognosi grave o infausta".
    Così invece l'articolo 29, quarto comma, del nuovo codice deontologico: "Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza".

  7. Sul punto si veda la risalente, ma sempre attuale, opinione di CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955, p.56.

  8. In tale ultimo senso si veda Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1994, p. 255 ss.

  9. Così l'art. 34. Necessità e urgenza. Allorché sussistano condizioni di necessità e urgenza e in casi implicanti pericolo per la vita di un paziente, che non possa esprimere al momento una volontà contraria, il medico deve prestare l'assistenza e le cure indispensabili.

  10. Sul punto si veda Pretore di Catanzaro, 13 gennaio 1981, in Giur. Cost., I, 1981, p. 3098.

  11. In tal senso IADECOLA, Consenso del paziente e trattamento medico-chirurgico, in Riv. it. med. leg., 1986, p. 49 ss.

  12. Peraltro occorrerebbe indagare sulla reale "capacità" del soggetto in gravi condizioni di salute, ma ci addentreremmo in un terreno assai ostico, irto di obiezioni morali prima ancora che giuridiche.